Catturare con le parole le sensazioni delicate, di abbandono totale all’innocenza che mi ha provocato I Racconti dell’Orso, lo so già, non sarà facile.
Ma l’urgenza con cui voglio provarci ugualmente, è genuina, perciò spero almeno di avvicinarmici e farvi respirare un po’ della magia e dello stupore che ho provato io, quando ho incontrato per la prima volta il Monaco Meccanico e l’Omino Rosso.
Quel giovedì mattina al Reposi in occasione del 33° Torino Film Festival, con il mio berretto da volpe arancione calcato in testa, ero in uno stato di attesa speranzosa che questo film italiano, mi restituisse un po’ di respiro, dopo aver scelto dal programma del festival, una serie di film decisamente angosciosi e angoscianti che mi avevano lasciato addosso una sensazione di malessere.
È vero, non ero troppo convinta. Infatti, qualche giorno prima, davanti al Cinema Classico, in attesa di A simple Goodbye di Degena Yun, avevo sentito giornalisti uscire dalla sala dopo aver visto I racconti dell’Orso, decisamente contrariati e confusi.
Ma troppo incuriosita, dopo aver letto la trama, non ho ceduto e alle 9,15 mi sono messa in fila, accredito in mano e testa fra le nuvole.
Non appena è cominciato il film, ho cominciato a sentire un formicolio.
Quella sensazione che precede l’innamoramento per un film, un gioco, un libro, una canzone.
Dal finestrino di un’auto, scorrono boschi e paesaggi nordici e una bimba cullata dalla voce rassicurante del papà si addormenta ed è proprio in quel momento che un monaco meccanico comincia a seguire un omino rosso. Lo insegue e lo insegue, finché, entrambi esausti dal tanto camminare crollano addormentati in cima ad una Collina Magica. Al loro risveglio, ad attenderli, un orsacchiotto di pezza con l’imbottitura mezza fuori da uno strappo sulla pancia. I due, preoccupati, cominciano a prendersi cura dell’orso e a cercare di capire come poterlo far sentire meglio in modo che possa tornare a giocare.*
Ci avevo visto giusto, il colpo di fulmine era davvero scattato, i ricordi di infanzia, hanno preso il sopravvento: la sensazione dei viaggi lunghi in macchina, della fiducia, del tepore rassicurante che tutto in qualche modo andrà al suo posto, hanno colmato il mio cuore e a quel punto, le avventure dell’omino rosso e del monaco meccanico mi hanno totalmente conquistata. Un viaggio onirico sospeso nel tempo e nella coscienza, che non ha bisogno di parole che possiamo interpretare, perché filtrate direttamente dalle emozioni.
I due registi, Olmo Amato e Samuele Sestieri, hanno vinto una scommessa con sé stessi: riuscire a fare un film solo in due. Scritto, girato, recitato, durane un viaggio tra la Finlandia e la Norvegia, I racconti dell’Orso è passato da IndieGoGo per una campagna di raccolta fondi per essere ultimato ed è arrivato a concorrere al 33° Torino Film Festival.
La realtà è che a questo punto vi vorrei raccontare di quanto teneri e buffi siano i due protagonisti del film, che comunicano grazie alla voce e al linguaggio inventato di Virginia Quaranta e le musiche di Riccardo Magni.
Di come l’omino rosso sfili dalla sua tutina mappe con intricatissimi percorsi o di come il monaco meccanico mi ricordi un Jawa di Guerre Stellari. Ma in realtà, credo che più che raccontarvi la storia in sé o descrivervi i personaggi, sia stato importante farvi capire le sensazione che questo piccolo gioiello mi ha procurato.
Voglia di sognare, viaggiare, scoprire e giocare ancora una volta a “facciamo che io ero un omino buffo rosso e ti offrivo un té..?”